GIUSEPPE GRADELLA

Intervista di Giulia Dozza

CONOSCIAMO L'ARTISTA

Giuseppe Gradella nasce a Mantova e si laurea in Architettura a Ferrara, dove inizia la sua formazione nel campo della storia dell’arte e della fotografia. Per diversi anni lavora come architetto. Nel 2015 decide di iniziare contemporaneamente anche la professione di fotografo e nel 2019 questa diventerà la sua unica attività. La forte impronta artistica caratterizza la sua produzione rendendo il suo stile riconoscibile e apprezzato in diversi ambiti. Si occupa di fotografia di architettura, di prodotto, di moda, di ritratto e di regia fotografica in produzioni video. Vende i suoi lavori in alcune gallerie d’arte, sia in Italia che all’estero, partecipa a mostre personali e collettive, sia in Italia che in altri paesi, organizza workshop di fotografia per scuole e privati, pubblica diversi scatti su Vogue.it. Collabora con il mondo dell’arte contemporanea, creando cataloghi per artisti e mostre; negli ultimi anni si è occupato anche di direzione della fotografia in tre cortometraggi. Fotografa anche opere del passato, soprattutto quelle legate al Rinascimento della sua città. Il suo studio si trova attualmente a Mantova.

Immaginare vite ed esperienze mai vissute, per te ha una certa importanza per creare nuovi immaginari da trasporre nelle tue opere?

Io parto spesso da qualche ricordo lontano di cui mi rimangono certe sensazioni, come quando sognamo eventi che non riusciamo a ricordare al risveglio, ma ci rimane addosso la percezione di qualcosa che sembra esser successo veramente, anche se non è mai realmente esistito.

La poetica delle tue immagini ha un tocco di nostalgia, soprattutto nello sguardo del soggetto umano, oppure sognante, con il soggetto con gli occhi socchiusi, astratto, in un’altra dimensione. Raccontaci le emozioni che vorresti portare alla luce tramite le tue opere, ed i tuoi metodi di comunicazione con il soggetto ritratto

Non credo di riuscire consapevolmente a indirizzare una persona ad avere una certa espressione, nelle mie foto; non chiedo mai di essere tristi o felici a comando, più che altro indirizzo il soggetto ad una sospensione del contatto verso chi lo sta fotografando, cerco di innescare un sovrappensiero; gli schermi traslucidi aiutano a creare questa sorta di contatto distaccato, a volte può essere la musica in studio o le cose che si dicono prima di scattare. Sicuramente quello che si percepisce nei miei ritratti è quello che sono io.
Con i soggetti che fotografo cerco sempre di stabilire un rapporto equo, amichevole, ma non invasivo e nemmeno distaccato, mi turbano le persone che vogliono qualcosa da te senza comunicartelo o quelle che per fartelo capire invadono la tua sfera privata, credo che ci sia uno spazio che riguarda solo la fotografia e fotografare e farsi fotografare può diventare un’esperienza molto piacevole se i presupposti sono condivisi. Il soggetto per me è un medium, un ponte tra il mio mondo subacqueo interiore e quello che sta sopra la superficie, è una rete che cattura nelle profondità qualcosa che sento ma non conosco; spesso la cosa diventa reciproca e il medium divento io per chi sta posando. Mi piace chiacchierare sempre un po’ prima di fotografare persone che non non ho mai visto di prima o con cui non ho nessun legame, mi piace “ascoltare” chi ho davanti senza mai oltrepassare un certo limite.
 
Hai avuto un passato da architetto e questo ha favorito di certo il tuo senso di geometria e di armonia/equilibro per quanto riguarda le tue composizioni: precisione matematica ed espressione emozionale, dove trovano, per te, un punto di incontro?
 
La mia forma mentis tende alla quadratura del cerchio, che geometricamente è impossibile, ma mi spinge a “disegnare” quel che vedo, a chiuderlo in perimetri e aree ben delimitate. L’idea della finestra che guarda un panorama, è un’invenzione tutta italiana del Rinascimento, il poter mettere in quadro o inquadrare è una necessità dell’essere umano che decide di guardare la realtà cercando di fermarne l’eterno cambiamento; la fotografia per me si esplica come un atto volta a trattenere qualcosa di effimero, cercando di custodirlo e proteggerlo in qualche modo. 
 
Cambiare prospettiva dà modo di farsi idee e visioni completamente differenti dalle solite: cosa significa per te il concetto di consapevolezza?
 
Consapevolezza per me è assecondare le mie aspirazioni e prospettive, ma anche pormi degli ostacoli per raggiungerle. Sono profondamente convinto che dietro anche il più piccolo successo ci sia sempre molto sacrificio, molta vita, molte delusioni e arrabbiature (avrei scritto altro ma è un’intervista). La fortuna conta, ma per la mia esperienza, la fortuna arriva proprio con la consapevolezza di quello che siamo, nel bene e nel male. Cambiare punto di vista fa parte degli ostacoli e dei paletti, che noi stessi creiamo, al fine di raggiungere o almeno avvicinarci a ciò per cui ci sentiamo portati. Io da architetto sono portato a tenere un certo rigore nelle miei immagini, devo sempre capire lo spazio e la luce prima di scattare un ritratto, anche se poi questo ambiente non si vedrà, sono cose che servono a me mi fanno sentire meglio quando poi scatto. A volte provo a scardinare tutta questa rigida erezione dell’altro ma alla fine tornato sempre da dove sono arrivato!
 
La fotografia è un fortissimo mezzo di espressione: pensi di aver trovato nella tua fotografia il mezzo di comunicazione che ti è più congeniale o pensi che la tua ricerca umana continuerà a spingersi oltre la fotografia?
 
Credo che la fotografia sia il giusto mezzo per potermi esprimere ora. Vorrei approcciarmi al video, lo faccio di nascosto, ma ho paura di imbarcarmi in un’avventura complessa e di non avere più il tempo sufficiente per svilupparla come ho fatto con la fotografia, ma sono convinto che qualcosa farò, per ora i miei video sono foto che si muovono un po’!
 
Raccontaci in breve il tema che porti a Naked Parts of Us
 
Il tema è quello che mi accompagna dal 2016 circa, ritratti attraverso superfici traslucide in cui il soggetto si affaccia e si avvicina al l’osservatore, rimanendo comunque distante e intoccabile. Il corpo negli ultimi anni è diventato sempre più mercificato, reso tangibile, desiderabile, acquistabile, per cui tendo a lasciarlo in uno spazio dichiaratamente “altro” dove il
suo essere “a nudo” corrisponde esattamente al suo essere. 
 
Hai fatto molti workshop e sei professore sulla nota piattaforma Domestika: cosa consiglieresti ad un fotografo studente o emergente?
 
Di fare quello che faccio anche io, continuare ad osservare, leggere, viaggiare con la mente se non lo si può fare col corpo, confrontarsi con chi opera in modo molto diverso da noi, sbagliare, ritentare e sbagliare ancora. Consiglio di creare qualcosa che appartenga solo a noi stessi, partendo dalla nostra immagine riflessa nello specchio. Se abbiamo qualcosa da spendere è il nostro essere unici, la fotografia è solo il mezzo, noi siamo chi crea l’immagine.

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